CONTATTI

I VISITATORI CHE NE AVESSERO BISOGNO POSSONO INVIARE I LORO QUESITI ANCHE ALL'INDIRIZZO E-MAIL: avv.gio.dambrosio@gmail.com

giovedì 5 settembre 2019

LA DIFFAMAZIONE AL TEMPO DEI SOCIAL
Ritengo doveroso informare tutti i miei contatti, quindi assistiti e non, che la facilità con cui il proprio pensiero possa essere veicolato attraverso social come facebook, spesso corrisponde anche alla facilità con cui ci si possa esporre a procedimenti penali e/o cause civili per richieste di risarcimento se, il pensiero in discorso, dovesse avere in qualche forma contenuto diffamatorio.
Tanto è quanto ormai pacificamente viene riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza sia di merito che di legittimità.
La normativa di riferimento è l'art. 595 c.p. ed il 2058 c.c..
Oltretutto, è bene sapere che la capacità diffusiva di un social come facebook è tale da considerare, l'eventuale illecito diffamatorio compiuto, aggravato dalla particolare rapidità di pubblicizzazione e diffusione che tale mezzo consente, secondo quanto disposto dal terzo comma del citato art. 595 c.p., con apprezzabili ed ovvie ricadute sul piano civile in termini di quantificazione del danno prodotto.
"Infatti, la Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella di cui al terzo comma del menzionato articolo."
Inoltre, come accennato, la prevedibile conseguenza che tale orientamento comporta sul piano civile dipende direttamente dal corollario che una condotta come quella in commento "andrà verosimilmente a potenziare l’ingiustizia del danno, posto che l’utilizzo del mezzo internet comporta una diffusione della notizia diffamatoria ben più ampia e potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di individui", con un proporzionale aumento della quantificazione del danno causato.
Per chiunque sia interessato di seguito la pronuncia per esteso in commento.
___
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA
TERZA SEZIONE CIVILE
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Cinzia Gamberini ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 13362/2017 promossa da:
F.T.S.R.L., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M.
G. G., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M. F. G., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M.
ATTORI
Contro
M. B., con il patrocinio dell’avv. M. S., elettivamente domiciliato in VIA X N. 43 40100 BOLOGNA presso il difensore avv. M. S.
CONVENUTO
CONCLUSIONI
Le parti hanno concluso come segue
Per F. T. S.R.L., per G. G., per F. G.: “Voglia l’Ill. mo Giudice adito, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa: – accertare la condotta diffamatoria posta in essere dal sig. M. B. nei confronti degli attori per le ragioni esposte in narrativa e per effetto della pubblicazione su Facebook del post prodotto come doc. 10; – condannare il convenuto a risarcire, a F. T. s.r.l. e ai sig. ri G. e F. G., tutti i danni patiti, patrimoniali e non, nessuno escluso; – per l’effetto, condannare il sig. M. B. a pagare l’importo di 8.000,00 (ottomila) cadauno ai sigg. F. e G. G. ed 10.000,00 (diecimila) a F. T. s.r.l., ovvero la diversa somma che sarà ritenuta dovuta, anche in via equitativa, all’esito del giudizio, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 1284, comma IV, c.c. dalla domanda al saldo; – disporre la pubblicazione dell’emananda sentenza di condanna, anche ex art. 2058 c.c. e 120 c.p.c., a cura degli attori ed a spese del convenuto, per una volta e per estratto di “Il Resto del Carlino”, edizione domenicale di Bologna con caratteri doppi rispetto a quelli normali di stampa; – condannare il sig. M. B. a rifondere, agli attori, le spese del presente giudizio nonché del procedimento di mediazione”.
P. M. B. “L’Ill. mo Tribunale adito voglia, in via principale, respingere le domande attoree e le richieste per i motivi suesposti in quanto infondate in fatto e/o in diritto e/o non provate e/o sprovviste di nesso di causalità. In ogni caso, con vittoria di spese, diritti, onorari, Iva e CPA come per legge”.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con atto di citazione notificato in data 04.08.2017, la F. T. S.r.l. – già W. s.r.l., società nata nel 2007 all’interno del gruppo T. di Bologna con l’obiettivo di sviluppare il mercato della bicicletta elettrica – ed i signori G. F. e G. G. in proprio, convenivano il signor B. M. innanzi il Tribunale di Bologna per sentir accertare la condotta diffamatoria da questi posta in essere ed ottenere la condanna del convenuto al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, conseguenti alla lesione del loro diritto alla reputazione e all’immagine, quantificati in € 8.000,00 (ciascuno) per i signori F. G. e G. G. e in € 10.000,00 per la F. T. s.r.l., ovvero nella diversa somma ritenuta di giustizia, anche in via equitativa, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 1284 comma IV, c.c. dalla domanda al saldo. Chiedevano, inoltre, disporre la pubblicazione dell’emananda sentenza di condanna, a cura degli attori ed a spese del convenuto, per una volta e per estratto su “Il Resto del Carlino”, edizione domenicale di Bologna, con caratteri doppi rispetto a quelli normali di stampa.
Si costituiva nel presente giudizio il signor M. B. il quale confutava e contestava quanto dedotto e prodotto ed insisteva nella reiezione delle domande avversarie.
Assegnati i termini di cui all’art. 183, comma VI, c.p.c., all’udienza in data 08.05.2018, il Giudice rigettava le istanze istruttorie formulate dalle parti e rinviava all’udienza in data 07.03.2019 ove tratteneva la causa in decisione, assegnando i termini di cui all’art. 190 c.p.c.. *** Le pretese di parte attrice sono fondate e devono essere accolte, seppure solo parzialmente in relazione al quantum di danno lamentato, per le ragioni che seguono.
In genere: cenni sulla disciplina in materia di diffamazione.
Ai fini di un migliore inquadramento della vicenda oggetto di causa, si ritiene utile ripercorrere sinteticamente la regolamentazione delle fattispecie di diffamazione, cui l’ordinamento nel suo complesso attribuisce un evidente disvalore, sia sul piano penale, con la previsione di una specifica ipotesi di reato, ex art. 595 c.p., sia sul piano civile quale condotta evidentemente integrativa di fatto illecito, ai sensi dell’art. 2043. 5 o Comune a entrambi i piani è il significato di condotta diffamatoria, esplicitato invero solo nel codice penale, laddove si punisce la condotta di chi, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Se la comunicazione avviene a mezzo stampa o, come nel caso di specie, a mezzo internet, l’offesa si ritiene ancora più pregnante.
Infatti, la Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella di cui al terzo comma del menzionato articolo.
La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra l’ipotesi aggravata menzionata trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti. Un’aggravante che trova la sua ratio nella idoneità del mezzo utilizzato che determina una rapida pubblicizzazione e diffusione (Cassazione penale, sez. I, 28/04/2015, n. 24431; Cassazione penale, sez. V., 13/07/2015, n. 8328). Questo si traduce, sul piano penale e per espressa previsione del legislatore, in un aumento della pena.
Sul piano civile, ciò andrà verosimilmente a potenziare l’ingiustizia del danno, posto che l’utilizzo del mezzo internet comporta una diffusione della notizia diffamatoria ben più ampia e potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di individui.
Vero è che la tutela della reputazione personale e dell’onore, bene giuridico presidiato dal perseguimento delle condotte diffamatorie, deve molto spesso trovare un adeguato bilanciamento con un altro diritto fondamentale, ossia quello di manifestazione del libero pensiero, in tutte le sue specifiche declinazioni, quali il diritto di critica e il diritto di cronaca, che trovano un preciso addentellato costituzionale nell’art. 21 Cost. L’impossibile coesistenza di entrambe le tutele, in alcune occasioni, impone all’ordinamento, all’esito di un bilanciamento tra i valori in gioco, di decidere quale dei due diritti deve considerarsi prevalente, sacrificando l’altro. Ciò avviene attraverso l’operatività di vere e proprie esimenti che, in una data situazione, elidono l’antigiuridicità di una condotta altrimenti rilevante.
In questo senso il diritto di critica e di cronaca, se esercitati con le modalità e nei limiti previsti, sono idonei a conferire legittimità a una condotta che, in astratto, potrebbe integrare un illecito, ad esempio perché lesiva della reputazione altrui.
Come accennato, tuttavia, l’operatività di tali esimenti non è illimitata.
Il diritto di critica e di cronaca deve essere esercitato nel rispetto dei principi di verità, di pertinenza e di continenza. Non solo. A questi stessi limiti si assegna una accezione in parte diversa, più o meno restrittiva, a seconda che si parli specificamente di diritto di critica o di diritto di cronaca.
In particolare, nel diritto di critica, il principio di verità assume un rilievo più limitato e affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, per sua natura, sottende espressioni meramente soggettive, relative non tanto alla narrazione di un fatto storico quanto piuttosto alle opinioni che l’individuo ha di questo, senza che possa pretendersi una valutazione rigorosamente obiettiva.
B. diverso è invece il diritto di cronaca, inteso quale diritto a informare e ad essere informati, che trova soprattutto nel “principio di verità”un presupposto ma anche un limite del suo esercizio. Ed infatti la finalità propria della cronaca è quella di riferire non mere opinioni personali ma notizie di accadimenti, che debbono in ogni caso rivestire un pubblico interesse.
Si deve poi rammentare che, qualora si ritenga integrata una condotta diffamatoria, le pretese risarcitorie avanzate dal danneggiato a ristoro del danno all’immagine che si ritiene subito, devono sempre essere sostenute da prove adeguate sulla effettiva verificazione di un apprezzabile pregiudizio.
Non è pertanto ammissibile una presunzione assoluta iuris et de iure per il solo fatto dell’accertamento di una condotta diffamatoria.
Nondimeno, la prova del danno non patrimoniale all’immagine può essere data anche per presunzioni, sulla base però di una complessiva valutazione di precisi elementi di fatto dedotti in causa (ex plurimis, Cassazione civile, n. 28457/2008), potendosi in questo modo giungere a una valutazione anche in via equitativa dell’ammontare del risarcimento, stante l’obiettiva difficoltà in questi casi di una determinazione specifica.
2.Il caso di specie.
L’an.
Il fatto che ha dato origine alla presente controversia consiste nella pubblicazione, in data 26.09.2015, da parte del signor M. B. sulla pagina Facebook della W. s.r.l. (oggi F. T. s.r.l.) -che, all’epoca, riportava un annuncio promozionale relativo alla bicicletta elettrica modello “Trilogia” rappresentando agli utenti la possibilità di usufruire fino a 300,00 di sconto – di un “post”del seguente contenuto: “Ma perché la W. invece che ostinarsi a chiudere bilanci in passivo da circa 6 anni e offrire incentivi con denaro pubblico non regala qualche bicicletta alla nuova velostazione di Bologna, e da un contributo e un sostegno alla mobilità pubblica invece che succhiare denaro ? …Dai F. meno mi piace …Al buon giatti!” Ad avviso di questo giudicante non può revocarsi in dubbio che il post scritto dal convenuto sulla pagina Facebook della W., – il cui contenuto essenziale si è integralmente riportato – assuma una portata lesiva dell’immagine della W. stessa e della reputazione dei suoi titolari, G. G. e F. G., fornendo al pubblico interessato dall’annuncio promozionale dell’azienda una rappresentazione della W. come una società in perdita da anni, che “succhia” denaro pubblico e che inganna i suoi clienti spacciando incentivi del Comune come propri sconti.
Tali affermazioni risultano denigratorie di per sé stesse e, ancor più, ove non corrispondenti al vero, come nel caso di specie.
Parte attrice ha, infatti, documentato la falsità della circostanza stigmatizzata dal signor M. B. con il “post” di cui si discute, ossi che la W. offrisse gli incentivi riferiti nell’annuncio promozionale commentato da B. utilizzando denaro pubblico, atteso che: “- il Comune di Bologna aveva previsto un contributo a favore degli utilizzatori finali per l’acquisto di qualsiasi bicicletta a pedalata assistita” (Doc. 18); – W. aveva, autonomamente, disposto un proprio distinto sconto ad hoc (Doc. 19), pubblicizzato sulla pagina F., che andava ad aggiungersi e cumularsi al contributo del Comune.
Le azioni attribuite dal signor B. a W. (“offrire incentivi con denaro pubblico” E “succhiare denaro pubblico”) sono quindi non veritiere e lesive dell’immagine dell’azienda.
Inoltre, il post risulta denigratorio anche nella parte in cui il signor B. domanda, in maniera canzonatoria, perché la W. si ostini a chiudere bilanci in passivo da circa 6 anni”. “Per sostenere la veridicità di tale affermazione il convenuto ha riferito in atti che la W. si trovava già da anni in stato di decozione e che, a fine 2015, è stata incorporata per fusione e quindi cancellata.. per effetto della gestione fallimentare (cfr. memoria B. ex art. 183, comma VI, n. 2 c.p.c.). Anche tali affermazioni non appaiono veritiere – alla luce della documentazione e delle considerazioni svolte da parte attrice, che ha spiegato come le perdite di esercizio, per una start-up in un settore altamente innovativo siano del tutto normali nel periodo iniziale, richiedendosi rilevanti investimenti e dovendosi attendere risultati positivi nel medio, lungo periodo -, ed esposte in violazione del limite della continenza.
Peraltro, a smentita della gestione fallimentare riferita dal convenuto, parte attrice ha prodotto il n. del catalogo 2018 W., da cui si evince che la società attrice è in sviluppo e continuità e lanciare nuovi e più evoluti modelli di e-bike (Doc. 25), Quanto immediatamente precede conduce questo giudice a ritenere che il descritto “post” leda l’immagine e la reputazione degli attori, integrando l’elemento materiale della fattispecie diffamatoria.
In relazione, poi, alla sussistenza dell’elemento soggettivo, come noto è necessario e sufficiente che ricorra il dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè la consapevolezza di offendere l’immagine e la reputazione altrui, la quale, nel caso di specie, si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate.
In ordine al riconoscimento dell’esimente del diritto di critica, si osserva che il contenuto del commento appare esorbitante rispetto ai limiti di una opinione genuina, continente e costruttiva.
Sul punto si è osservato che “il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (Cass., sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014 – dep. 20/08/2014, P.M. in proc. Surano, Rv. 261122). Invero, l’ambito di operatività di tale diritto nei delitti contro l’onore è stato oggetto di molteplici statuizioni della giurisprudenza. Si è così stabilito che, pur assumendo il requisito della verità del fatto un rilievo affievolito rispetto alla diversa incidenza che esso svolge sul versante del diritto di cronaca (Sez. 5, n. 4938/11 del 28/10/2010, S., Rv. 249239), è tuttavia indispensabile che sia rispettato un nucleo di veridicità (Sez. 5, n. 43403 del 18/06/2009, R., Rv. 245098), posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne è investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità (Sez. 5, n. 7419/10 del 03/12/2009, C., Rv. 246096). Tali principi hanno trovato applicazione anche nel caso di specie, tanto è vero che, in data 14.03.2016, il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Bologna ha emesso decreto penale di condanna n. 892/2016 nei confronti del sig. B. per il reato di diffamazione aggravata (Doc. 16 fasc. att.). 3. Il quantum Tanto puntualizzato in ordine all’integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie diffamatoria, occorre accertare la consistenza dei pregiudizi patiti dagli attori in conseguenza della pubblicazione lesiva.
Al riguardo, preme evidenziare che non possa essere condiviso l’assunto per cui il danno non patrimoniale da lesione dell’immagine e della reputazione sia un danno ” in re ipsa”, ciò contrastando con l’attuale, e ormai consolidatosi (a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 2008: si vada segnatamente, Cass., Il novembre 2008, n. 26972, sino alla recente Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350), orientamento che esclude, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale ” in re ipsa”, sia che esso derivi da reato (Cass., 12 aprile 2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; Cass., 15 luglio 2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass., 26 maggio 2009, n. 12242), sia, infine, che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, e, tra questi, il diritto all’immagine (anche di enti collettivi: Cass., 13 ottobre 2016, n. 20643) e, segnatamente, il diritto all’onore ed alla reputazione della persona fisica (Cass., 18 novembre 2014, n. 24474). Le conclusioni che precedono traggono alimento dal superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente, come è noto, dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico e oggetto di revirement da parte della stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994. Orbene, il danno risarcibile, nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione (Cass. n. 16133 del 2014). Detta ricostruzione muove anzitutto dal riconoscimento che l’art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dal citato art. 2043, senza differenziazioni in termini di prova (cfr. Cass., sez. un. n. 26972 del 2008, cit.). Ne consegue che la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 c.c.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene, a tale ultimo fine, possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima (si veda, in tema di diffamazione a mezzo stampa Cass. n. 13153 del 2017). Ciò posto, dunque, la oggettiva difficoltà di tradurre in termini monetari una entità (ossia il danno non patrimoniale) che non può essere stimata sulla base di criteri economici specifici, consente al giudice di applicare una valutazione necessariamente equitativa e ciò sulla base della espressa previsione codicistica, di cui all’art. 1226 c.c.. Pertanto, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto debitamente considerate a tale fine nella specie, quali la diffusione dello scritto attraverso il social network Facebook idoneo a diffondere il messaggio pubblicato, l’intrinseca rilevanza dell’offesa all’immagine dell’azienda e alla reputazione professionale degli attori, il numero di destinatari qualificati raggiunti, la qualità di concorrente sul mercato del soggetto diffamante, si ritiene equo riconoscere la somma complessiva pari a euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno all’immagine patito da parte attrice (5.000,00 per ciascuno degli attori). Dal momento della sentenza e sino all’effettivo soddisfo dovranno essere corrisposti, sul totale sopra liquidato all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.
A diverse conclusioni si deve giungere con riferimento al danno patrimoniale lamentato e dipendente, in tesi attorea, dalla disincentivazione all’acquisto da parte degli utenti Facebook raggiunti dal “post” pubblicato dal convenuto. Con riferimento a tale danno, nessuna prova concreta è stata offerta dagli attori, neppure in termini di calo di fatturato a seguito della pubblicazione del “post” diffamatorio. Ne consegue il mancato riconoscimento del danno patrimoniale.
Quanto, infine, alla richiesta di pubblicazione della sentenza su quotidiano locale, ritiene il giudicante che della pubblicità, soprattutto in considerazione del tempo trascorso dai fatti di causa, non possa, nel caso di specie, in alcun modo contribuire a riparare il danno subito. La domanda deve, pertanto, essere rigettata.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno, dunque, poste a carico di parte convenuta, liquidate in 341,77 per spese, 5.255,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario spese generali ex art. 2 D.MN. 55/2014, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istabza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1) Dichiara tenuto e condanna il signor M. B., per i titoli di cui in motivazione, al pagamento in favore di F. T. s.r.l., G. G. e F. G., della somma di euro 15.000,00 (5.000,00 ciascuno), oltre interessi legali dalla data della presente sentenza al saldo definitivo.
2) Rigetta ogni altra domanda.
3 ) Condanna il convenuto al pagamento, in favore degli attori in solido tra loro, delle spese del presente procedimento, liquidate in 341, 77 per spese, 5.255,00 per compenso professionale, oltre rimborso forfetario spese generali ex art. 2 D.M. 55/2014, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Bologna, 05/07/2019
Il Giudice
dott. Cinzia Gamberini

lunedì 1 febbraio 2016

Un pò di norme di civiltà a tutela delle vittime deboli dei reati.

Finalmente l’Italia, con il decreto legislativo numero 212/2015 pubblicato con la Gazzetta Ufficiale n. 3/2016 del 5 gennaio scorso è, ha provveduto a recepire la direttiva numero 2012/29/UE in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
Pertanto, dal 20 gennaio diverranno operative le tutele speciali apprestate in favore di tutti coloro che si trovano in condizioni di difficoltà a seguito di un reato del quale sono stati vittima, con particolare attenzione a donne, minori, stranieri e vittime di violenza.

In particolare, il decreto in discorso ha modificato l'articolo 90 del codice di procedura penale e introdotto gli articoli 90-bis, 90-ter e 90-quater.
Così, oggi, le facoltà e i diritti previsti dalla legge per il coniuge a seguito del decesso di una persona offesa in conseguenza di reato, possono essere fatti valere per legge anche dal convivente o dal soggetto con il quale la vittima era legata da una relazione affettiva stabile.

Sin dal primo contatto con le autorità, poi, sono ora rafforzati i diritti della persona offesa a conoscere e ricevere nella propria lingua gli atti essenziali per poter partecipare al processo.
Inoltre, i provvedimenti di scarcerazione, di cessazione della misura di sicurezza detentiva e di evasione dell'imputato vanno ora immediatamente comunicati alla vittima del relativo reato, se commesso con violenza alla persona.

Infine, si prevede che una persona offesa possa essere considerata come particolarmente vulnerabile in ragione non solo dell'età e dello stato di infermità o deficienza psichica, ma anche sulla base del tipo di reato e delle sue modalità di esplicazione e delle circostanze nelle quali l'illecito sia stato perpetrato.

Alcune modifiche di rilievo hanno interessato anche le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, con l'introduzione dell'articolo 107-ter, relativo all'assistenza dell'interprete per la proposizione o la presentazione di denuncia o querela, e dell'articolo 108-ter, relativo alle denunce e alle querele per reati commessi in altro Stato dell'Unione Europea.

Sarà ora interessante verificare l'applicabilità in concreto di tali norme per sondarne la reale portata in termini di tutele. 


Di seguito si riporta il Decreto in parola.


DECRETO LEGISLATIVO 15 dicembre 2015, n. 212 

Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI. (15G00221) 
(GU n.3 del 5-1-2016) 


IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 
Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione; 

Vista la direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI; 

Visto l'articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400; 

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447, recante approvazione del 
codice di procedura penale; 

Vista la legge 6 agosto 2013, n. 96, recante delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea - Legge di delegazione europea 2013, e in particolare l'articolo 1 nonche' l'allegato B; 

Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 4 settembre 2015; 

Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; 

Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione dell'11 dicembre 2015; 

Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro della giustizia, di concerto con i Ministri degli affari esteri e della cooperazione internazionale e dell'economia e delle finanze; 

Emana 
il seguente decreto legislativo: 


Art. 1 Modifiche al codice di procedura penale

1. Al 
codice di procedura penale, approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447, sono apportate le seguenti modificazioni: 
a) all'articolo 90: 
1) dopo il comma 2, e' inserito il seguente: 
«2-bis. Quando vi e' incertezza sulla minore eta' della persona offesa dal reato, il giudice dispone, anche di ufficio, perizia. Se, anche dopo la perizia, permangono dubbi, la minore eta' e' presunta, ma soltanto ai fini dell'applicazione delle disposizioni processuali.»; 

2) al comma 3, dopo le parole: «prossimi congiunti di essa», sono aggiunte le seguenti: «o da persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente»; 

b) dopo l'articolo 90 sono inseriti i seguenti: 
«Art. 90-bis. (Informazioni alla persona offesa). - 1. Alla persona offesa, sin dal primo contatto con l'autorita' procedente, vengono fornite, in una lingua a lei comprensibile, informazioni in merito: 
a) alle modalita' di presentazione degli atti di denuncia o 
querela, al ruolo che assume nel corso delle indagini e del processo, al diritto ad avere conoscenza della data, del luogo del processo e della imputazione e, ove costituita parte civile, al diritto a ricevere notifica della sentenza, anche per estratto; 

b) alla facolta' di ricevere comunicazione dello stato del procedimento e delle iscrizioni di cui all'articolo 335, commi 1 e 2; 

c) alla facolta' di essere avvisata della richiesta di archiviazione; 

d) alla facolta' di avvalersi della consulenza legale e del 
patrocinio a spese dello Stato; 

e) alle modalita' di esercizio del diritto all'interpretazione e alla traduzione di atti del procedimento; 

f) alle eventuali misure di protezione che possono essere disposte in suo favore; 

g) ai diritti riconosciuti dalla legge nel caso in cui risieda in uno Stato membro dell'Unione europea diverso da quello in cui e' stato commesso il reato; 

h) alle modalita' di contestazione di eventuali violazioni dei propri diritti; 

i) alle autorita' cui rivolgersi per ottenere informazioni sul procedimento; 

l) alle modalita' di rimborso delle spese sostenute in relazione alla partecipazione al procedimento penale; 

m) alla possibilita' di chiedere il risarcimento dei danni derivanti da reato; 

n) alla possibilita' che il procedimento sia definito con remissione di 
querela di cui all'articolo 152 del codice penale, ove possibile, o attraverso la mediazione; 

o) alle facolta' ad essa spettanti nei procedimenti in cui l'imputato formula richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova o in quelli in cui e' applicabile la causa di esclusione della punibilita' per particolare tenuita' del fatto; 

p) alle strutture sanitarie presenti sul territorio, alle case famiglia, ai centri antiviolenza e alle case rifugio. 
Art. 90-ter. (Comunicazioni dell'evasione e della scarcerazione). - 1. Fermo quanto previsto dall'articolo 299, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona sono immediatamente comunicati alla persona offesa che ne faccia richiesta, con l'ausilio della polizia giudiziaria, i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, ed e' altresi' data tempestiva notizia, con le stesse modalita', dell'evasione dell'imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, nonche' della volontaria sottrazione dell'internato all'esecuzione della misura di sicurezza detentiva, salvo che risulti, anche nella ipotesi di cui all'articolo 299, il pericolo concreto di un danno per l'autore del reato. 
Art. 90-quater. (Condizione di particolare vulnerabilita'). - 1. Agli effetti delle disposizioni del presente codice, la condizione di particolare vulnerabilita' della persona offesa e' desunta, oltre che dall'eta' e dallo stato di infermita' o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalita' e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se e' riconducibile ad ambiti di criminalita' organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalita' di discriminazione, e se la persona offesa e' affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall'autore del reato.»; 

c) al comma 4 dell'articolo 134 e' aggiunto, in fine, il seguente periodo: «La riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni della persona offesa in condizione di particolare vulnerabilita' e' in ogni caso consentita, anche al di fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilita'.»; 

d) dopo l'articolo 143 e' inserito il seguente: 
«Art. 143-bis. (Altri casi di nomina dell'interprete).- 1. L'autorita' procedente nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intellegibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana. La dichiarazione puo' anche essere fatta per iscritto e in tale caso e' inserita nel verbale con la traduzione eseguita dall'interprete. 
2. Oltre che nei casi di cui al comma 1 e di cui all'articolo 119, l'autorita' procedente nomina, anche d'ufficio, un interprete quando occorre procedere all'audizione della persona offesa che non conosce la lingua italiana nonche' nei casi in cui la stessa intenda partecipare all'udienza e abbia fatto richiesta di essere assistita dall'interprete. 
3. L'assistenza dell'interprete puo' essere assicurata, ove possibile, anche mediante l'utilizzo delle tecnologie di comunicazione a distanza, sempreche' la presenza fisica dell'interprete non sia necessaria per consentire alla persona offesa di esercitare correttamente i suoi diritti o di comprendere compiutamente lo svolgimento del procedimento. 
4. La persona offesa che non conosce la lingua italiana ha diritto alla traduzione gratuita di atti, o parti degli stessi, che contengono informazioni utili all'esercizio dei suoi diritti. La traduzione puo' essere disposta sia in forma orale che per riassunto se l'autorita' procedente ritiene che non ne derivi pregiudizio ai diritti della persona offesa.»; 

e) al comma 1-bis dell'articolo 190-bis dopo le parole: «degli anni sedici» sono inserite le seguenti: «e, in ogni caso, quando l'esame testimoniale richiesto riguarda una persona offesa in condizione di particolare vulnerabilita'»; 

f) al comma 1-ter dell'articolo 351 e' aggiunto il seguente periodo: «Allo stesso modo procede quando deve assumere sommarie informazioni da una persona offesa, anche maggiorenne, in condizione di particolare vulnerabilita'. In ogni caso assicura che la persona offesa particolarmente vulnerabile, in occasione della richiesta di sommarie informazioni, non abbia contatti con la persona sottoposta ad indagini e non sia chiamata piu' volte a rendere sommarie informazioni, salva l'assoluta necessita' per le indagini.»; 

g) al comma 1-bis dell'articolo 362 e' aggiunto il seguente periodo: «Allo stesso modo provvede quando deve assumere sommarie informazioni da una persona offesa, anche maggiorenne, in condizione di particolare vulnerabilita'. In ogni caso assicura che la persona offesa particolarmente vulnerabile, in occasione della richiesta di sommarie informazioni, non abbia contatti con la persona sottoposta ad indagini e non sia chiamata piu' volte a rendere sommarie informazioni, salva l'assoluta necessita' per le indagini.»; 

h) al comma 1-bis dell'articolo 392 e' aggiunto il seguente periodo: «In ogni caso, quando la persona offesa versa in condizione di particolare vulnerabilita', il pubblico ministero, anche su richiesta della stessa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all'assunzione della sua testimonianza.»; 

i) all'articolo 398, dopo il comma 5-ter e' aggiunto il seguente: «5-quater. Fermo quanto previsto dal comma 5-ter, quando occorre procedere all'esame di una persona offesa che versa in condizione di particolare vulnerabilita' si applicano le diposizioni di cui all'articolo 498, comma 4-quater.»; 

l) all'articolo 498, il comma 4-quater e' sostituito dal seguente: «4-quater. Fermo quanto previsto dai precedenti commi, quando occorre procedere all'esame di una persona offesa che versa in condizione di particolare vulnerabilita', il giudice, se la persona offesa o il suo difensore ne fa richiesta, dispone l'adozione di modalita' protette.». 

Art. 2 
Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento 
e transitorie del codice di procedura penale


1. Alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del 
codice di procedura penale, approvate con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, sono apportate le seguenti modificazioni: 
a) dopo l'articolo 107-bis e' inserito il seguente: 
«Art. 107-ter. (Assistenza dell'interprete per la proposizione o presentazione di denuncia o 
querela).- 1. La persona offesa che non conosce la lingua italiana, se presenta denuncia o propone querela dinnanzi alla procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto, ha diritto di utilizzare una lingua a lei conosciuta. Negli stessi casi ha diritto di ottenere, previa richiesta, la traduzione in una lingua a lei conosciuta dell'attestazione di ricezione della denuncia o della querela.»; 

b) dopo l'articolo 108-bis e' inserito il seguente: 
«Art. 108-ter. (Denunce e querele per reati commessi in altro Stato dell'Unione europea). - 1. Quando la persona offesa denunciante o 
querelante sia residente o abbia il domicilio nel territorio dello Stato, il procuratore della Repubblica trasmette al procuratore generale presso la Corte di appello le denunce o le querele per reati commessi in altri Stati dell'Unione europea, affinche' ne curi l'invio all'autorita' giudiziaria competente.». 

Art. 3 Disposizioni finanziarie 
1. Agli oneri derivanti dall'attuazione del presente decreto, valutati in euro 1.280.000,00 annui, a decorrere dall'anno 2016, si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo per il recepimento della normativa europea di cui all'articolo 41-bis della legge 24 dicembre 2012, n. 234. 
2. Ai sensi dell'articolo 17, comma 12, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, il Ministro della giustizia provvede al monitoraggio degli oneri di cui al presente decreto e riferisce in merito al Ministro dell'economia e delle finanze. Nel caso si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di cui al comma 1, il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro della giustizia, provvede, con proprio decreto, alla riduzione, nella misura necessaria alla copertura finanziaria del maggior onere risultante dall'attivita' di monitoraggio, delle dotazioni finanziarie rimodulabili di parte corrente di cui all'articolo 21, comma 5, lettera b), della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nell'ambito del programma «Giustizia civile e penale» della missione «Giustizia» dello stato di previsione del Ministero della giustizia. 
3. Il Ministro dell'economia e delle finanze e' autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. 
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sara' inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. 

Dato a Roma, addi' 15 dicembre 2015 
MATTARELLA 
Renzi, Presidente del Consiglio dei 
ministri 
Orlando, Ministro della giustizia 
Gentiloni Silveri, Ministro degli 
affari esteri e della cooperazione 
internazionale 
Padoan, Ministro dell'economia e 
delle finanze Visto, il Guardasigilli: Orlando


giovedì 16 febbraio 2012

ALLE VITTIME DEGLI STUPRI E DEI REATI VIOLENTI LO STATO DEVE GARANTIRE UN EQUO INDENNIZZO, ANCHE COL PROPRIO PATRIMONIO

Corte di appello di Torino - Sezione III civile - Sentenza 23 gennaio 2012 n. 106

Ancora una volta è la giurisprudenza che sana le onnipresenti lacune legislative create dal poco attento legislatore italiano. Ebbene, oggi tocca alla Corte di appello di Torino, con la sentenza 23 gennaio 2012, confermare la condanna dell’Italia a indennizzare la vittima di uno stupro in quanto non ha dato attuazione alla direttiva comunitaria (la n. 2004/80/Ce) che impone agli Stati membri di prevedere un “equo ed adeguato” ristoro per le vittime di reati intenzionali violenti commessi nel proprio territorio, quando diviene impossibile conseguire il risarcimento integrale dai propri offensori. E' stato, così, confermato l’impianto con cui lo stesso tribunale, in primo grado, con la sentenza 3145/2010, aveva condannato il lo Stato italiano. 


Nello specifico una cittadina rumena di 18 anni è stata sequestrata e violentata in Italia da due connazionali, poi condannati alla pena di 14 anni ciascuno e al risarcimento del danno, ma scappati dagli arresti domiciliari e, dunque, in stato di latitanza. La donna, nella conseguente impossibilità di conseguire il risarcimento dei danni riportati in conseguenza dello stupro subito, aveva chiamato in giudizio la presidenza del Consiglio italiana chiedendone la condanna per la mancata, o non integrale, attuazione della direttiva 2004/80/CE. In particolare, con la richiamata direttiva è stato previsto che dal 1° luglio 2005 gli Stati membri dell’Ue avevano l’obbligo di garantire un equo ed adeguato ristoro alle vittime di reati violenti ed intenzionali impossibilitate a conseguire dai loro offensori il risarcimento integrale dei danni subiti e patendi. Così, indicava in 100mila euro l’ammontare del risarcimento richiesto. Il tribunale di Torino accoglieva la doglianza liquidando 90mila euro alla vittima.
Avverso questa pronuncia presentava appello la Presidenza del Consiglio dei ministri che, al contrario, sosteneva di essere in regola con le prescrizioni comunitarie avendo già al proprio interno una legislazione che prevede l’indennizzo delle vittime per i casi terrorismo, mafia ed usura. Fortunatamente tale tesi non è stata condivisa dalla Corte di Appello secondo cui, a mio avviso giustamente, non rientra nei poteri discrezionali degli Stati “selezionare le tipologie di reati violenti e circoscrivere la gamma di reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato a fini indennitari”. Infatti, la direttiva, all’articolo 12, “non consente tale discrezionalità, laddove prescrive che tutti gli Stati membri devono predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori”. E quindi da questi non possono essere tenuti fuori i reati di violenza sessuale che in tutta evidenza rientrano a pieno titolo nella categoria. La discrezionalità degli Stati potrà semmai attuarsi “nello stabilire la misura equa ed adeguata di un indennizzo” ma non certo lasciando arbitrariamente fuori alcuni reati.
Tantomeno, al riguardo, può considerarsi, come sostenuto dagli appellanti, che il Dlgs 204/2007 intitolato proprio “Attuazione della direttiva 2044/80/CE” sia stato effettivamente tale, essendosi piuttosto limitato a regolare la procedura per l’assistenza alle vittime di reato.
Ad avvalorare la propria tesi sull’inadempimento dello Stato, la Corte ha richiamato la decisione della Cassazione, a sezioni Unite (n. 9147/2009), secondo cui: “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie non auto esecutive sorge […] il diritto degli interessati al risarcimento di danni”. Una responsabilità di natura indennitaria volta al riconoscimento di un credito da determinarsi in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione dalla perdita subita.
Nel caso di specie la perdita è consistita nel non aver ricevuto alcun indennizzo per la violenza sessuale subita non avendo lo stato italiano adempiuto ai suoi obblighi e dunque non avendo neppure regolato in autonomia le condizioni, i presupposti e anche i limiti all’indennizzo stesso.


Infine, l'adita Corte d'Appello, ha avuto modo di chiarire la natura ed i criteri per individuare il giusto "indennizzo". Difatti, conclude la Corte di appello, l’indennizzo “non può però essere un pieno risarcimento del danno, diversamente da quanto pare essere stato deciso dal giudice di prime cure, con il richiamo per la liquidazione a criteri non meno favorevoli  di quelli che si applicano a richieste analoghe fondate su violazioni del diritto interno”. E, pertanto, la liquidazione “non può che essere fatta, per il danno non patrimoniale, in via equitativa, ex articoli 2056-1226 cc”. Dunque tenuto conto delle conseguenze di ordine morale e psicologico secondo i giudici l’indennizzo “giustificabile” è di 50mila euro, corrispondente quasi alla metà di quanto riconosciuto dal giudice di prime cure.

giovedì 28 aprile 2011

IL REATO DI CLANDESTINITA' VIENE BOCCIATO DALLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA

Corte di Giustizia Europea, sentenza 28 aprile 2011 causa C-61/11 (Hassen El Dridi alias Soufi Karim).


Bocciatura da parte della Corte Ue alla posizione italiana sulla politica dell’immigrazione. Il reato di clandestinità, introdotto nel 2009 con il decreto legge n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125, cd. “pacchetto sicurezza”, è contrario alla normativa dell’Unione. I giudici nazionali che si ritroveranno a giudicare tali questioni dovranno, dunque, disapplicare la disposizione interna che prevede la reclusione fino a  quattro anni in caso di mancato allontanamento del clandestino, ed applicare al suo posto la più morbida direttiva europea sui rimpatri. Infatti, dovranno tener conto anche del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, “il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri”. Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea con la sentenza 28 aprile 2011 causa C-61/11 (Hassen El Dridi alias Soufi Karim).
Per giudici di Lussemburgo, dunque, “gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa nazionale in discussione nel procedimento principale, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare in detto territorio”.
Una siffatta previsione di una pena detentiva “rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali”.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda all'articolo presente su guida al diritto.


martedì 22 marzo 2011

Finalmente all'utente delle spedizioni postali è stato riconosciuto l'integrale risarcimento per i danni da inefficienza del servizio

Con la sentenza in discorso ancora una volta è dovuta intervenire la Corte Costituzionale per porre rimedio alle ingiustizie di fatto create dalle inefficienze del nostro legislatore. Finalmente, gli Uffici Postali devono risarcire l'intero danno subito dal cliente in caso di ritardo nel recapito di una spedizione effettuata con il servizio postale. La Corte costituzionale, infatti, con la sentenza 46/2011 dichiarato illegittimo l'articolo 6 del Dpr n. 156 del 1973 nella parte in cui il concessionario non incontra alcuna responsabilità per il ritardato recapito delle spedizioni. A sollecitare l'intervento dei giudici di Palazzo della Consulta è stato il tribunale di Napoli al quale si era rivolta una società che aveva spedito a mezzo postacelere la documentazione necessaria per partecipare a una gara per l'affidamento di un appalto. La spedizione, a causa di un errore del vettore, è stata effettuata a Reggio Calabria invece che a Reggio Emilia, con conseguente esclusione dalla gara dell'istante, essendo nel frattempo scaduto il termine di presentazione delle offerte. La S.p.A. Poste Italiane, riconosciuto l'errore, si è limitata a rimborsare all'utente il costo di spedizione, ma ora dovrà risarcire il danno effettivamente subito dalla società. I giudici della Corte costituzionale, infatti, nel "bocciare" la norma hanno affermato che "la previsione della mera corresponsione del costo per la spedizione determina, anche nel caso di servizio postacelere, una totale esclusione di responsabilità, non essendo in grado di assolvere a una funzione risarcitoria del danno arrecato all'utente, che utilizza il predetto servizio proprio in vista della celerità del medesimo".

martedì 1 marzo 2011

Bloccare un'auto con la propria vettura può configurare un'ipotesi di reato

Con questa sentenza la Suprema Corte di Cassazione pone un'altra pietra miliare verso un maggiore senso civico nei rapporti tra i cittadini.
Chi non vorrebbe vedere in carcere l'automobilista che blocca la nostra vettura per oltre un'ora, incurante di qualsiasi lamentela? A togliere questa soddisfazione a molti italiani è stata la Corte di cassazione, condannando a 30 giorni di reclusione per violenza privata la ricorrente che aveva lasciato la sua auto  all'interno del cortile dello stabile in cui abitava, messa in modo tale da bloccare l'uscita della macchina di un'altra condomina. La vittima del sopruso aveva suonato clacson e citofono della proprietaria della vettura parcheggiata male, fino ad accusare un malore che i giudici hanno collegato allo stress provocato dalla frustrazione di non potersi allontanare come avrebbe voluto.
La Cassazione bolla come inutile "l'encomiabile sforzo profuso dalla difesa" per dimostrare la buona fede della sua assistita che non era riuscita a spostare l'automezzo che era d'intralcio "malgrado le affannose ricerche per reperire le chiavi". Non piace agli ermellini neppure la giustificazione della mancata risposta della signora nel rispondere alle sollecitazioni della vicina. L'"inerzia" era dovuta - a suo dire - solo alla convinzione che il marito o il padre avessero provveduto a informare la diretta interessata dello smarrimento delle chiavi. Gli ermellini, anche loro particolarmente sensibili al tema, decidono per i 30 giorni di carcere più il risarcimento dei danni.  

giovedì 24 febbraio 2011

Chi trattiene il cellulare prestato per fare una telefonata non commette una semplice appropriazione indebita, bensì il reato di furto


Scatta il reato di furto ex art. 624 c.p. e non la semplice appropriazione indebita a carico di chi sottrae il cellulare che il prorietario ha prestato per una telefonata da fare in sua presenza. La Corte di cassazione, con la sentenza 6937, coglie l'occasione per chiarire la differenza tra i reati di furto e l'appropriazione indebita. La seconda - sottolineano gli ermellini - ai sensi dell'art. 646 c.p. è configurabile quando l'oggetto è stato affidato a un detentore e rientra nella sua autonoma disponibilità. Nel caso esaminato non c'era alcuna disponibilità del bene, essendo il cellulare "passato di mano" il tempo necessario per consentire a chi lo chiedeva di fare una sola telefonata.

Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 26 gennaio-23 febbraio 2011 n. 6937.