Corte di appello di Torino - Sezione III civile - Sentenza 23 gennaio 2012 n. 106
Ancora una volta è la giurisprudenza che sana le onnipresenti lacune legislative create dal poco attento legislatore italiano. Ebbene, oggi tocca alla Corte di appello di Torino, con la sentenza 23 gennaio 2012, confermare la condanna dell’Italia a indennizzare la vittima di uno stupro in quanto non ha dato attuazione alla direttiva comunitaria (la n. 2004/80/Ce) che impone agli Stati membri di prevedere un “equo ed adeguato” ristoro per le vittime di reati intenzionali violenti commessi nel proprio territorio, quando diviene impossibile conseguire il risarcimento integrale dai propri offensori. E' stato, così, confermato l’impianto con cui lo stesso tribunale, in primo grado, con la sentenza 3145/2010, aveva condannato il lo Stato italiano.
Nello specifico una cittadina rumena di 18 anni è stata sequestrata e violentata in Italia da due connazionali, poi condannati alla pena di 14 anni ciascuno e al risarcimento del danno, ma scappati dagli arresti domiciliari e, dunque, in stato di latitanza. La donna, nella conseguente impossibilità di conseguire il risarcimento dei danni riportati in conseguenza dello stupro subito, aveva chiamato in giudizio la presidenza del Consiglio italiana chiedendone la condanna per la mancata, o non integrale, attuazione della direttiva 2004/80/CE. In particolare, con la richiamata direttiva è stato previsto che dal 1° luglio 2005 gli Stati membri dell’Ue avevano l’obbligo di garantire un equo ed adeguato ristoro alle vittime di reati violenti ed intenzionali impossibilitate a conseguire dai loro offensori il risarcimento integrale dei danni subiti e patendi. Così, indicava in 100mila euro l’ammontare del risarcimento richiesto. Il tribunale di Torino accoglieva la doglianza liquidando 90mila euro alla vittima.
Avverso questa pronuncia presentava appello la Presidenza del Consiglio dei ministri che, al contrario, sosteneva di essere in regola con le prescrizioni comunitarie avendo già al proprio interno una legislazione che prevede l’indennizzo delle vittime per i casi terrorismo, mafia ed usura. Fortunatamente tale tesi non è stata condivisa dalla Corte di Appello secondo cui, a mio avviso giustamente, non rientra nei poteri discrezionali degli Stati “selezionare le tipologie di reati violenti e circoscrivere la gamma di reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato a fini indennitari”. Infatti, la direttiva, all’articolo 12, “non consente tale discrezionalità, laddove prescrive che tutti gli Stati membri devono predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori”. E quindi da questi non possono essere tenuti fuori i reati di violenza sessuale che in tutta evidenza rientrano a pieno titolo nella categoria. La discrezionalità degli Stati potrà semmai attuarsi “nello stabilire la misura equa ed adeguata di un indennizzo” ma non certo lasciando arbitrariamente fuori alcuni reati.
Tantomeno, al riguardo, può considerarsi, come sostenuto dagli appellanti, che il Dlgs 204/2007 intitolato proprio “Attuazione della direttiva 2044/80/CE” sia stato effettivamente tale, essendosi piuttosto limitato a regolare la procedura per l’assistenza alle vittime di reato.
Ad avvalorare la propria tesi sull’inadempimento dello Stato, la Corte ha richiamato la decisione della Cassazione, a sezioni Unite (n. 9147/2009), secondo cui: “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie non auto esecutive sorge […] il diritto degli interessati al risarcimento di danni”. Una responsabilità di natura indennitaria volta al riconoscimento di un credito da determinarsi in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione dalla perdita subita.
Nel caso di specie la perdita è consistita nel non aver ricevuto alcun indennizzo per la violenza sessuale subita non avendo lo stato italiano adempiuto ai suoi obblighi e dunque non avendo neppure regolato in autonomia le condizioni, i presupposti e anche i limiti all’indennizzo stesso.
Infine, l'adita Corte d'Appello, ha avuto modo di chiarire la natura ed i criteri per individuare il giusto "indennizzo". Difatti, conclude la Corte di appello, l’indennizzo “non può però essere un pieno risarcimento del danno, diversamente da quanto pare essere stato deciso dal giudice di prime cure, con il richiamo per la liquidazione a criteri non meno favorevoli di quelli che si applicano a richieste analoghe fondate su violazioni del diritto interno”. E, pertanto, la liquidazione “non può che essere fatta, per il danno non patrimoniale, in via equitativa, ex articoli 2056-1226 cc”. Dunque tenuto conto delle conseguenze di ordine morale e psicologico secondo i giudici l’indennizzo “giustificabile” è di 50mila euro, corrispondente quasi alla metà di quanto riconosciuto dal giudice di prime cure.
Nello specifico una cittadina rumena di 18 anni è stata sequestrata e violentata in Italia da due connazionali, poi condannati alla pena di 14 anni ciascuno e al risarcimento del danno, ma scappati dagli arresti domiciliari e, dunque, in stato di latitanza. La donna, nella conseguente impossibilità di conseguire il risarcimento dei danni riportati in conseguenza dello stupro subito, aveva chiamato in giudizio la presidenza del Consiglio italiana chiedendone la condanna per la mancata, o non integrale, attuazione della direttiva 2004/80/CE. In particolare, con la richiamata direttiva è stato previsto che dal 1° luglio 2005 gli Stati membri dell’Ue avevano l’obbligo di garantire un equo ed adeguato ristoro alle vittime di reati violenti ed intenzionali impossibilitate a conseguire dai loro offensori il risarcimento integrale dei danni subiti e patendi. Così, indicava in 100mila euro l’ammontare del risarcimento richiesto. Il tribunale di Torino accoglieva la doglianza liquidando 90mila euro alla vittima.
Avverso questa pronuncia presentava appello la Presidenza del Consiglio dei ministri che, al contrario, sosteneva di essere in regola con le prescrizioni comunitarie avendo già al proprio interno una legislazione che prevede l’indennizzo delle vittime per i casi terrorismo, mafia ed usura. Fortunatamente tale tesi non è stata condivisa dalla Corte di Appello secondo cui, a mio avviso giustamente, non rientra nei poteri discrezionali degli Stati “selezionare le tipologie di reati violenti e circoscrivere la gamma di reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato a fini indennitari”. Infatti, la direttiva, all’articolo 12, “non consente tale discrezionalità, laddove prescrive che tutti gli Stati membri devono predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori”. E quindi da questi non possono essere tenuti fuori i reati di violenza sessuale che in tutta evidenza rientrano a pieno titolo nella categoria. La discrezionalità degli Stati potrà semmai attuarsi “nello stabilire la misura equa ed adeguata di un indennizzo” ma non certo lasciando arbitrariamente fuori alcuni reati.
Tantomeno, al riguardo, può considerarsi, come sostenuto dagli appellanti, che il Dlgs 204/2007 intitolato proprio “Attuazione della direttiva 2044/80/CE” sia stato effettivamente tale, essendosi piuttosto limitato a regolare la procedura per l’assistenza alle vittime di reato.
Ad avvalorare la propria tesi sull’inadempimento dello Stato, la Corte ha richiamato la decisione della Cassazione, a sezioni Unite (n. 9147/2009), secondo cui: “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie non auto esecutive sorge […] il diritto degli interessati al risarcimento di danni”. Una responsabilità di natura indennitaria volta al riconoscimento di un credito da determinarsi in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione dalla perdita subita.
Nel caso di specie la perdita è consistita nel non aver ricevuto alcun indennizzo per la violenza sessuale subita non avendo lo stato italiano adempiuto ai suoi obblighi e dunque non avendo neppure regolato in autonomia le condizioni, i presupposti e anche i limiti all’indennizzo stesso.
Infine, l'adita Corte d'Appello, ha avuto modo di chiarire la natura ed i criteri per individuare il giusto "indennizzo". Difatti, conclude la Corte di appello, l’indennizzo “non può però essere un pieno risarcimento del danno, diversamente da quanto pare essere stato deciso dal giudice di prime cure, con il richiamo per la liquidazione a criteri non meno favorevoli di quelli che si applicano a richieste analoghe fondate su violazioni del diritto interno”. E, pertanto, la liquidazione “non può che essere fatta, per il danno non patrimoniale, in via equitativa, ex articoli 2056-1226 cc”. Dunque tenuto conto delle conseguenze di ordine morale e psicologico secondo i giudici l’indennizzo “giustificabile” è di 50mila euro, corrispondente quasi alla metà di quanto riconosciuto dal giudice di prime cure.