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giovedì 28 aprile 2011

IL REATO DI CLANDESTINITA' VIENE BOCCIATO DALLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA

Corte di Giustizia Europea, sentenza 28 aprile 2011 causa C-61/11 (Hassen El Dridi alias Soufi Karim).


Bocciatura da parte della Corte Ue alla posizione italiana sulla politica dell’immigrazione. Il reato di clandestinità, introdotto nel 2009 con il decreto legge n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125, cd. “pacchetto sicurezza”, è contrario alla normativa dell’Unione. I giudici nazionali che si ritroveranno a giudicare tali questioni dovranno, dunque, disapplicare la disposizione interna che prevede la reclusione fino a  quattro anni in caso di mancato allontanamento del clandestino, ed applicare al suo posto la più morbida direttiva europea sui rimpatri. Infatti, dovranno tener conto anche del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, “il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri”. Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea con la sentenza 28 aprile 2011 causa C-61/11 (Hassen El Dridi alias Soufi Karim).
Per giudici di Lussemburgo, dunque, “gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa nazionale in discussione nel procedimento principale, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare in detto territorio”.
Una siffatta previsione di una pena detentiva “rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali”.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda all'articolo presente su guida al diritto.


martedì 22 marzo 2011

Finalmente all'utente delle spedizioni postali è stato riconosciuto l'integrale risarcimento per i danni da inefficienza del servizio

Con la sentenza in discorso ancora una volta è dovuta intervenire la Corte Costituzionale per porre rimedio alle ingiustizie di fatto create dalle inefficienze del nostro legislatore. Finalmente, gli Uffici Postali devono risarcire l'intero danno subito dal cliente in caso di ritardo nel recapito di una spedizione effettuata con il servizio postale. La Corte costituzionale, infatti, con la sentenza 46/2011 dichiarato illegittimo l'articolo 6 del Dpr n. 156 del 1973 nella parte in cui il concessionario non incontra alcuna responsabilità per il ritardato recapito delle spedizioni. A sollecitare l'intervento dei giudici di Palazzo della Consulta è stato il tribunale di Napoli al quale si era rivolta una società che aveva spedito a mezzo postacelere la documentazione necessaria per partecipare a una gara per l'affidamento di un appalto. La spedizione, a causa di un errore del vettore, è stata effettuata a Reggio Calabria invece che a Reggio Emilia, con conseguente esclusione dalla gara dell'istante, essendo nel frattempo scaduto il termine di presentazione delle offerte. La S.p.A. Poste Italiane, riconosciuto l'errore, si è limitata a rimborsare all'utente il costo di spedizione, ma ora dovrà risarcire il danno effettivamente subito dalla società. I giudici della Corte costituzionale, infatti, nel "bocciare" la norma hanno affermato che "la previsione della mera corresponsione del costo per la spedizione determina, anche nel caso di servizio postacelere, una totale esclusione di responsabilità, non essendo in grado di assolvere a una funzione risarcitoria del danno arrecato all'utente, che utilizza il predetto servizio proprio in vista della celerità del medesimo".

martedì 1 marzo 2011

Bloccare un'auto con la propria vettura può configurare un'ipotesi di reato

Con questa sentenza la Suprema Corte di Cassazione pone un'altra pietra miliare verso un maggiore senso civico nei rapporti tra i cittadini.
Chi non vorrebbe vedere in carcere l'automobilista che blocca la nostra vettura per oltre un'ora, incurante di qualsiasi lamentela? A togliere questa soddisfazione a molti italiani è stata la Corte di cassazione, condannando a 30 giorni di reclusione per violenza privata la ricorrente che aveva lasciato la sua auto  all'interno del cortile dello stabile in cui abitava, messa in modo tale da bloccare l'uscita della macchina di un'altra condomina. La vittima del sopruso aveva suonato clacson e citofono della proprietaria della vettura parcheggiata male, fino ad accusare un malore che i giudici hanno collegato allo stress provocato dalla frustrazione di non potersi allontanare come avrebbe voluto.
La Cassazione bolla come inutile "l'encomiabile sforzo profuso dalla difesa" per dimostrare la buona fede della sua assistita che non era riuscita a spostare l'automezzo che era d'intralcio "malgrado le affannose ricerche per reperire le chiavi". Non piace agli ermellini neppure la giustificazione della mancata risposta della signora nel rispondere alle sollecitazioni della vicina. L'"inerzia" era dovuta - a suo dire - solo alla convinzione che il marito o il padre avessero provveduto a informare la diretta interessata dello smarrimento delle chiavi. Gli ermellini, anche loro particolarmente sensibili al tema, decidono per i 30 giorni di carcere più il risarcimento dei danni.  

giovedì 24 febbraio 2011

Chi trattiene il cellulare prestato per fare una telefonata non commette una semplice appropriazione indebita, bensì il reato di furto


Scatta il reato di furto ex art. 624 c.p. e non la semplice appropriazione indebita a carico di chi sottrae il cellulare che il prorietario ha prestato per una telefonata da fare in sua presenza. La Corte di cassazione, con la sentenza 6937, coglie l'occasione per chiarire la differenza tra i reati di furto e l'appropriazione indebita. La seconda - sottolineano gli ermellini - ai sensi dell'art. 646 c.p. è configurabile quando l'oggetto è stato affidato a un detentore e rientra nella sua autonoma disponibilità. Nel caso esaminato non c'era alcuna disponibilità del bene, essendo il cellulare "passato di mano" il tempo necessario per consentire a chi lo chiedeva di fare una sola telefonata.

Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 26 gennaio-23 febbraio 2011 n. 6937.

lunedì 7 febbraio 2011

L'espulsione dell'immigrato clandestino non può essere attuata se il figlio minore ne dovesse ricevere un danno

Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 3 febbraio 2011 n. 2647

Il clandestino può rimanere in Italia per accudire il figlio piccolo se il rimpatrio del genitore può determinare gravi danni al minore. Lo ha confermato la prima sezione civile con la sentenza 2647/2011 secondo la quale la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico fisico, non postula necessariamente l'esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze eccezionali. E' sufficiente, infatti, che si possa verificare per il minore un danno effettivo e concreto in considerazione dell'età e delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio che deriverà certamente al minore dall'allontanamento del familiare. Si tratta di situazioni, ha precisato la Corte, di non lunga durata e che non possono assumere carattere di stabilità.

Per ulteriori approfondimenti visualizza il testo della sentenza integrale.

lunedì 24 gennaio 2011

Offendere il proprio coniuge può portare alla condanna per maltrattamenti

Cassazione Penale, sentenza n. 45547 del 28 dicembre 2010.

Offendere il proprio coniuge può configurare l'ipotesi delittuosa di maltrattramento di cui all'art. 572 c.p.c.. Lo ha stabilito la Sesta Sezione penale della Cassazione con sentenza 28 dicembre 2010, n. 45547 con la quale si evidenzia come i comportamenti abituali, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali, ingiuriose e offensive, ben possono determinare una condanna per il reato di maltrattamento previsto dall’art. 572, c.p..
Come confermato dall’orientamento dominante in giurisprudenza, il reato in discorso consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita. I singoli episodi che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell'integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la stessa convivenza particolarmente dolorosa: atti sorretti dal dolo generico integrato dalla volontà cosciente di ledere la integrità fisica o morale della vittima.
Anche le offese possono integrare la fattispecie in questione. Secondo il giudice nomofilattico, infatti, tali condotte, costantemente ripetute, hanno evidenziato l'esistenza di un programma criminoso diretto a ledere l'integrità morale della persona offesa, di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l'espressione e in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole e penosa l'esistenza della moglie.

Cari lettori per visualizzare la sentenza integrale e per ulteriori approfondimenti, visitate il blog "SEPARAZIONE, DIVORZIO E FAMIGLIA" curato sempre dall'avv. Giovanni D'Ambrosio.

martedì 18 gennaio 2011

Possono essere illecite le immissioni rumorose anche se non superano i limiti di legge

Cari lettori, mi raccomando, da oggi fate più attenzione quando fate rumore in locali condominiali, non si potrebbe mai sapere… qualche vicino irascibile potrebbe sfruttare questo nuovo orientamento della Suprema Corte e decidere di farvi causa.
Vi do solo questa dritta: quando si tratta di rumori dovuti ad attività necessarie e di preminente interesse i vicini debbono essere sicuramente molto comprensivi in quanto è lo stesso art. 844, 2° co., c.c. a concedere questa sorta di “diritto a fare rumore”.
Di seguito vi riporto la massima della sentenza in esame contenente il link per la sentenza integrale.

Corte di cassazione - Sezione II civile - Sentenza 17 gennaio 2011 n. 939
Nei rapporti di vicinato le immissioni rumorose possono essere illecite anche quando non è superato il limite di accettabilità stabilito dalla legge. Lo ha chiarito la seconda sezione civile della Cassazione con la sentenza 939/2011 secondo la quale in materia di immissioni, mentre è senz'altro illecito il superamento dei limiti stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell'interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli stessi non può far considerare senz'altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi alla stregua dei principi previsti dall'articolo 844 del codice civile.